Ad accoglierci nel loro ristorante in Borgo Palazzo sono i bellissimi sorrisi di Haimanot e di suo marito Andom: ventisei anni di matrimonio alle spalle, tre figli (di cui due in giro per il mondo), quasi quarant’anni di vita in Italia, molti dei quali trascorsi in cucina.
Sono entrambi dell’Eritrea e si sono conosciuti in Italia, dove lui era arrivato alla fine degli anni settanta come rifugiato politico, mentre lei era di passaggio durante un viaggio di lavoro in Europa.
La storia di Andom è come quelle di molti altri uomini e donne in fuga da un paese in guerra: fu sua mamma a suggerirgli di fuggire, poiché aveva già due figli nell’esercito e non voleva che anche il terzo rischiasse la vita. Poco più che ventenne, Andom partì alla volta del Sudan, dove stavano i fratelli ai quali voleva porgere un ultimo saluto. Camminò per tre giorni e poté dire addio solo a uno dei due.
Una volta in Italia, l’accoglienza del Patronato San Vincenzo, mischiata alla sua tenacia e buona volontà, hanno fatto il resto. È subito tornato a studiare: il suo diploma non era riconosciuto dallo stato italiano e poi lui voleva imparare bene la lingua. Così ventiquattrenne si è messo in classe per gli ultimi tre anni di scuola superiore. “Ero più vicino agli insegnanti che agli altri studenti” commenta sotto ai baffi.
Poi l’incontro con Haimanot, un amore che viene suggellato da ben quattro matrimoni: civile e religioso in Italia, ad Asmara dalla famiglia di lei e poi nel villaggio della mamma di Andom.
Ridono nel raccontarlo e dicono che la loro unione è indissolubile… sarebbe impossibile divorziare altrettante volte!
Mentre parliamo loro si scambiano sguardi d’intesa, si prendono in giro – un po’ come Sandra e Raimondo – e Haimanot spesso ripete “Ma cosa dici? Vedi che non ricordi nulla?”
Lui sorride intenerito, ci guarda e dice “Vedi, è lei il capo.”
Haimanot è la regina della cucina – durante il nostro incontro si alza più volte per controllare la cottura e accogliere i fornitori – e ci dice che è stata proprio questa sua passione a portarli al Dahlak (nome del ristorante e di un arcipelago di isole, tra le sette meraviglie d’Africa).
Fu proprio lei che insistette per cucinare ad una festa dell’Unità il piatto tradizionale, voleva farlo conoscere, voleva che tante persone lo assaggiassero.
Quando le dissero che l’anno successivo potevano partecipare, racconta che per dodici mesi non dormì più per la paura di non farcela.
Da lì in poi fu la gente a continuare a chieder loro “Ma dopo la festa dove possiamo mangiare cibo eritreo? Dov’è il vostro ristorante? Perché non possiamo mangiare le vostre pietanze anche in inverno?”
Ecco, per chi si fida e si affida, la vita è questa cosa qui: rispondere a una domanda, accogliere qualcosa che ti arriva tra le mani e avere fiducia che tutto andrà bene.
Poi prudenza, perseveranza e gran lavoro faranno il resto.
Di certo il ristorante è stato un lavoro che ha permesso di sostenere e far studiare i figli – per esempio la più grande, dopo aver studiato Lingue in Ca’ Foscari a Venezia, ora si trova in Corea per un master in relazioni internazionali – ma è stato soprattutto l’occasione di diffondere una preziosa cultura della ‘condivisione’.
i più piccoli."
Andom ci spiega che, man mano che si mangia il cibo , partendo dai bordi del piatto, ne resta solo una parte nel centro: ecco, questa è sempre destinata al più piccolo della famiglia. “Deve crescere ed è giusto che sia lui o lei a mangiare più degli altri.”
Al ristorante loro insistono affinché le persone provino a mangiare così. Sanno che la tavola condivisa è sempre luogo di relazione e che è proprio qui che si stringono i rapporti più belli.
Come quelli che Andom ha costruito in Italia: oggi ha legami solidi con chi lo ha accolto e sostenuto al suo arrivo. “Sono stato fortunato, mi hanno dato fiducia e lavoro e ora siamo come fratelli.”
Li salutiamo, solo dopo aver assaggiato un piatto tipico – che Haimanot prepara davanti ai nostri occhi nella sua cucina così impeccabile che pare nuova – e gustato insieme, lentamente, il loro speziato tè caldo.
Questo è il loro benvenuto, per noi un grazie e, indubbiamente, un arrivederci.